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quadernettoQuadernetto birmano ( Estratto)

Ho scritto le note del diario mentre ero in Birmania, in maggio del 2007 enelle settimane immediatamente successive, e i paragrafi precedenti prima degli orribili eventi del settembre scorso, di cui, ovviamente, in esse non c’è traccia; e non ho ritenuto opportuno cambiare i miei commenti col senno di poi; anche perché non mi è parso ci fosse grande bisogno di modifiche. Essendomi invece imbattuto, durante il viaggio, in alcuni rapporti italo-birmani non a tutti noti, mi sono imbarcato in una successiva ricerca che mi è sembrata di qualche interesse; e che ha assunto dimensioni tali da uscire dal puro diario ed è diventata una seconda parte di questo quadernetto, che ho steso tra giugno del 2007 e i primi mesi dell’anno successivo.
La portata, infine, dei recenti eventi politici mi ha costretto ad avanzare qualche considerazione, a posteriori, su di essi; per cui il quadernetto si conclude con una breve terza parte che li concerne.
Il risultato, forse, giustapponendo scritti di natura diversa, è disomogeneo e somiglia un po’ al bestiario immaginario dei templi birmani; ma credo che le tre parti, gettando qualche luce le une sulle altre, si integrino utilmente e diano un quadro più chiaro del paese, della sua storia, e dei suoi rapporti con il nostro paese e il resto del mondo.

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Le grandi strade che tagliano la città sono pianeggianti, ampie, costeggiate da alberi enormi; alle case moderne, a quelle coloniali, si appoggiano costruzioni improvvisate, da favela, nascoste dalle costruzioni più grandi e dalla vegetazione, che s’intrufola dappertutto; il risultato è caotico, ma visivamente gradevole.
Approfitto del tempo libero per tagliare dei capelli eccessivamente lunghi e cercare di disperdere i dolori del viaggio con un massaggio orientale. Il parrucchiere, unisex, al secondo piano del palazzo dove abbiamo pranzato, è in stile occidentale, pieno di specchi e scritte metallizzate, e si chiama, manco a dirlo, S T Y L E. Contiene uno specchio cielo-terra su due lati, con un lavabo e una sedia per il cliente su ciascun lato, dove opera il parrucchiere; maschio, évolué, in Europa potrebbe fare il dj, maglietta bianca a ramage verdi sbiaditi, sempre più pallidi andando dall’alto in basso; e jeans di tela grezza color deserto. Ad angolo retto con la specchiera, invece delle poltrone da barbiere, stanno tre catafalchi in pelle chiara, lunghezza uomo, che terminano da un lato con tre bacili in porcellana bianca “elmo di Mambrino” e dall’altro con tre sgabelli in pelle nera, rigonfi, che servono da appoggio ai polpacci. Completano il personale sette ragazze giovanissime in una semplicissima divisa: maglietta tipo Lacoste azzurra, jeans blu, sandali infradito; due hanno la testa che sembra una palla da biliardo, o forse un puntaspilli, con i capelli rasati solo qualche giorno prima, all’uso di monaci e monache; poi ci sono un paio di trecce, due capelli lunghi, una capigliatura alla maschietta anni Trenta.
Mi viene offerto di fare uno sciampo, e accetto subito, ignaro di quanto avverrà; mi fanno sdraiare su uno dei catafalchi, la testa nel lavabo, il cui bordo funge da cuscino, le gambe tra il catafalco stesso e lo sgabello rigonfio, piedi sul nulla; a pancia all’aria.
Il tempo si dilata immediatamente; lo sciampo dura quasi un’ora, sull’orologio, e non riguarda solo i capelli, né è solo uno sciampo. Forse perché sono solo nel “salone” – alle due di un pomeriggio al calor bianco – lo scambio temporale è solo una parte di uno scambio sociale molto più complesso, ricardiano; offrendo ognuno quello che produce con maggiore facilità, forse, in questo caso, il nulla.
Mentre infatti - io ribaltato come Gregor Samsa(1) - quella, delle sette, dai lunghi
(1)Gregor Samsa ha certamente diritto di cittadinanza in questi paesi. Infatti Gregor è archetipo del reietto, ma il suo cognome, scelto da Kafka non credo a caso, potrebbe riferirsi al samsara, il ciclo delle perenni reincarnazioni, nella teologia buddhista punitive, connesse alla colpa di vivere, e quindi desiderare.-
capelli mi lava la testa, le altre sei fanno cerchio, guardandomi dall’alto (gli occhi per me al posto della bocca e viceversa) come delle dame del Tiepolo che osservano, dall’alto della sala, i convitati, tra minuetti incrociati.
Le ragazze sono belle, sottili, con il naso appena camuso dell’oriente, occhi scuri, orecchie minute, pelle chiara, giallobruna, capelli corvini. Ampi sorrisi, reciproci; ma se durano più di qualche secondo e gli sguardi si incrociano troppo direttamente, ci sono diversioni e cesure; e giochi di asciugamani che fungono da sipario. Sono allo stesso tempo protagonista di una scena con sette spettatori e unico spettatore di un play con sei o sette personaggi.
Il lavaggio riguarda non solo i capelli, ma le orecchie, che vengono vigorosamente penetrate e ripulite in tutti i loro anfratti. Il sapone, sfregato contro la testa e i capelli, si gonfia, cresce, viene lavato via, si rigonfia, ricresce.
La lezione di economia politica, un’ora di tempo occidentale per sette ore di tempo orientale(2), si trasforma in lezione di anatomia quando al lavaggio si aggiungono massaggi delle clavicole, sapientissimi, del collo, delle braccia – muscolo per muscolo – delle mani – dito per dito, falange per falange – con scoppi e strappi dolorosi. Vengono massaggiate, dal basso, le arcate sopracciliari, gli zigomi, le mascelle, con professionalità da esperto maxillo- facciale. I capelli, ormai asciutti, vengono frizionati da dita ferree, con movimenti rotatori e strappi verso l’esterno che suonano come l’accensione di un grosso zolfanello sulla carta chimico-focaia della scatola.
Il taglio, dopo il trasferimento sulla apposita seggiola, dettato dalla tecnica e dalle forbici, e da qualche raro intervento di macchinetta elettrica, è questione di un quarto d’ora, one to one con il fighetto locale; le fanciulle in fiore, in un angolo, parlottano, si massaggiano a vicenda, carezzano i capelli delle due puntaspilli. Si affaccia ogni tanto una specie di  maîtresse più anziana, che allunga anche lei le mani sulle giovani, tra l’affettuoso e il losco.
Breve lavaggio conclusivo, sullo stesso tavolo operatorio.
Conto e pagamento all’uscita, matter of fact.

(2) Secondo Paul Morand, la situazione, nel primo decennio del XX secolo, era ancora, in Europa, o almeno a Venezia, quella di questa Asia: “Le temps ne valait rien, richesse sans cotation, comme le soleil ou l’oxygène”. Cfr., Venises, öditions Gallimard, Parigi, 1971. In Europa, tra sviluppo economico e privatizzazioni, tra poco si pagheranno anche il sole, e l’ossigeno.

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Poi, al centro, downtown.
Il mercato cinese è un pullulare di banchetti infimi, spesso di ceste appoggiate per terra, con grande quantità di merci in uno stato indescrivibile; teste di galline e polli ghigliottinati, pesci nei più diversi stadi di conservazione, verdure, fiori, frutta. Tutto viene tagliuzzato, sbucciato accuratamente, impacchettato.
Spicchi di una specie di pompelmo, mango gialli e verdi, leeches nei loro bei malli rosso-spinosi – come ricci di mare – frutti sconosciuti pieni di pseudobanane, incroci legnosi tra la noce di cocco e la melanzana.
Gli odori sono spesso insostenibili, fetidi, il contatto tra la fanghiglia della strada e i prodotti intenso, il colore delle acque alla fine dei lavaggi temibile.
I pesci vengono lasciati fermentare per farne cibo con i residui secchi, una specie di liquore (meglio forse liquame)(3) con le pressature.
Al secondo piano del mercato coperto, contiguo a quello stradale, compriamo qualche camicetta da pochi dollari; dietro ogni negozio si affollano decine di lavoranti che tagliano e cuciono con tecnologie dei primi anni del secolo scorso, a ritmi piuttosto pressanti.
C’è anche, tra le varie botteghe dozzinali, una famiglia di antiquari di un livello ben diverso, con reperti delle tribù del nord, di un certo valore, comunque di certa bellezza. Si passa dalla riserva indiana, alla sweatshop, ai magazzini Gum di Mosca negli anni ottanta del secolo scorso. L’ennesima pagoda, la Sule Paya, nella piazza del capolinea di corriere e camionette, dominata anche da un enorme Cristo, dipinto, di non si sa quale denominazione un po’ dolciastro e melenso, è atipica, circondata da negozi di ogni genere, fotografi, venditori di carabattole, cibi.
La sporcizia domina, inenarrabile, e il rituale di levarsi le scarpe si fa disgustoso.
Andiamo a vedere il fiume da vicino, all’estremo sud della città – lo Strand coloniale – ma il tentativo è frustrato dai divieti; solo pochi metri, di fronte alla
(3) Garum e liquamen, nelle cucine greca e romana, sono salse di pesce e delle loro viscere. Qui si arriva allo stato successivo, della macerazione e della fermentazione.
Port Authority, dove partono i traghetti, affollatissimi da pendolari; sono aperti al pubblico e bisogna dividerli con passeri, anatre e oche destinate al macello, corvi minacciosi.
Ci rifugiamo nello Strand Hotel – bell’albergo costruito nel 1896, da capitale coloniale – con arpista birmana e negozi eleganti, tariffe multipli di quelle anche dei migliori alberghi turistici per stranieri.

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Torniamo, verso sera, alla Shwedagon Pagoda; stavolta da un ingresso diverso, che ci porta direttamente alla sommità della collina, al piano dei templi.
Dopo una breve salita in ascensore e aver percorso un lungo corridoio panoramico, sbuchiamo accanto a un albero secolare di dimensioni che è assai raro incontrare in altri continenti; nato, si dice, da quello sotto il quale morí il Buddha.
Le forme dei templi minori sono le più diverse; stupa a campanellino, a forma di trullo, di gesso e mattoni, ziggurat bombati (parallelepipedi quadrangolari con al colmo un quasi-piano appena rigonfio) dipinti a riquadri con le storie del Buddha nelle sue varie manifestazioni, pagode a più piani, ognuno circondato da ricchissimi fregi di legno flamboyant, goticheggianti, rossi o verdi; semplici cubi con una nicchia per la statua del Buddha, e il colmo piramidale, dipinto di bianco, a calce.
La sera è dolce; il tramonto, improvviso e rapido, tinge tutto di rosso e di rosa, il calore rende l’aria che penetra nei polmoni quasi liquida, agli organi del gusto e del tatto. Le vie e i luoghi di preghiera a quest’ora sono animatissimi, colorati; i fedeli pregano, cantano ritmicamente, o chiacchierano, passeggiano, mangiano, cullano bambini, li sgridano, si toccano, si amano: vivono pubblicamente.
Gli animali e i personaggi guardiani sono Mangiafuoco, Pinocchio, Melampo; tutto un bestiario immaginario, pavoni, sfingi-leoni, sfingi-ranocchie, a sei zampe, elefanti, con un sedere enorme; cerberi che, filtrati da Venezia, che ha inviato qui il suo primo mercante nel 1435, da noi sono diventati personaggi della commedia dell’arte, Brighella “dal muso di cane”... Qui l’effetto è piuttosto surreale, ma elegante a tratti,  kitsch  altrove; nelle infinite pagode più povere e dozzinali, rari affreschi, nobiltà decadute nelle più antiche, che la pioggia, le radici degli alberi e il tempo sbriciolano; ma spesso l’effetto è di luna park, di circo equestre, e si pensa a Zampanò, a Fellini, alla Giulietta Masina più strappacore.
Percorriamo più volte la via circolare più grande; lo sguardo viene catturato da mille immagini. Qui, come altrove, domina l’iterazione, il multiplo, la clonazione; i Buddha, tutti simili e tutti diversi, le orecchie che toccano le spalle, lo sguardo vuoto, le labbra carminio, sono decine, centinaia, migliaia; seduti a sei a sei, a dieci a dieci, su una fila, su due, su dieci.

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Cembali e tamburi percossi monodicamente, monotonamente, creano un ritmo sul quale si svolgono lotte rituali tra angeli-pavoni, danze di seduzione, battaglie, e mentre trombe acutissime emettono suoni lancinanti, (4) intermezzi giocosi con uno splendido cavallo di carta bianca (con un uomo in piedi davanti che ne muove la testa e il petto e un uomo piegato dietro che ne muove le zampe posteriori e la groppa), che si agita e balla incongruo. La gente reagisce estasiata, e noi con essa, finché non si unisce alle danze un torpedone di vacanzieri spagnoli (ospiti del ristorante), del tutto fuori luogo, e la serata si scioglie tra la delusione generale. Le ieratiche danzatrici, svestite dei bei costumi locali, delle dorate ali angeliche, si rivelano un gruppo di ragazzine giovanissime
(4) I legami tra suono e battaglia sono secolari. Ecco una descrizione di Marco Polo di una battaglia orientale (Milione, [78], p.118, vedi la seconda parte):“Allotta cominciò a sonare molti istormenti ed a cantare ad alta boce; però che all’usanza de Tartari è cotale, che ‘nfino “che’l naccaro [il timpano] non suona, ch’è uno istormento del capitano, mai non combatterebbero, e infino che suona, “gli altri suonano molti stormenti e cantano. Or è lo cantare e lo sonare si grande da ogne parte, che ciò era meraviglia.“Quando furo aparechiati trambo le parti, e li grandi naccari cominciaro a sonare, e l’uno venne contra l’altro, e “cominciaronsi a fedire di lance e di spade. E fue la battaglia molto crudele e fellonesca, e le saette andavano tanto per “aria che non si potea vedere l’aria se non come fosse piova; e li cavalieri cadeano a terra dell’una parte e dell’altra; e “eravi tale romore, che gli truoni non sarebboro uditi.”I suoni, e il “romore” sono così dolorosi e acuti, alle nostre orecchie, che la falsa etimologia cui indurrebbero gli “istormenti” appare davvero appropriata e magre, che se ne tornano a casa con i suonatori, come delle qualsiasi casalinghe, su una mezza camionetta trainata da un trattore; il motore e la cinghia di trasmissione in bella vista.

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♦ La prima visita censita, e certa, [di un italiano in Birmania] risale al 1435, e fu di un mercante veneziano, Nicolò Conti (Chioggia, 1395- 1469), che tra il 1424 e il 1439 percorse l’Asia meridionale, le isole dell’Oceano Indiano, Sumatra, Giava e la Cina meridionale, durante un viaggio iniziato già nel 1414, e nel 1435 passò quattro mesi a Pegù e raggiunse Ava risalendo l’Irrawaddy. (5) I viaggi allora non erano viaggi; erano vite. Nei quindici anni delle sue peregrinazioni Niccolò sposa una indiana, ne ha quattro figli; moglie e due dei figli muoiono nella peste del Cairo, nel 1438; al rientro in Italia detta le sue memorie a Poggio Bracciolini, a Firenze;6 e lì ottiene il perdono di Papa Eugenio IV per la sua conversione (a suo dire forzata) all’Islam.Senza neppure farne il nome, la Encyclopædia Britannica dice che il primo europeo a visitare la Birmania fu “a merchant of Venice”, cercando, forse inconsciamente, di attribuire al viaggiatore un imprint shakespeariano, per annetterselo assieme al suo primato.
( 5) Vedi, Christian Bec, Histoire de Venise, Presses Universitaires de France, Parigi, 1993; e Norman Lewis, Golden Earth, Travels in Burma, ELAND, London, 2003. La guida del Myanmar “lonely planet” (di Robert Reid e Michael Grosberg, prima edizione del 1979), in genere molto accurata, lo fa, a torto, portoghese, e lo chiama Nicolò di Conti; Nicolò è noto anche come dei Conti, de’ Conti, da Conti, ecc. Per le notizie biografiche vedi il Dizionario Biografico degli Italiani, dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana (d’ora in avanti D.B.I.), vol. 28, 1983); e il L.U., vol. V, 1970.6 Riferito nella Historiae de Varietate Fortunae, Lutetia Parisiorum, 1447, pp.126-152; il cui capitolo India Recognita, edito isolatamente a Cremona nel 1492, si trova presso la British Library. Il suo racconto è riportato per intero in Giovanbattista Ramusio, Delle Navigationi et Viaggi,Venetia, per Tommaso Giunti, 1550-59. Sui primi viaggiatori italiani nel paese, si veda anche Olga Pinto, «La Birmania dei Viaggiatori italiani del XV e XVI secolo», in Asiatica, Anno VIII, Fasc.III, 1942; id., “Viaggi di Cesare Federici e Gasparo Balbi alle Indie Orientali”, in Bollettino della Reale Società Geografica Italiana, 83, 1946, pp.1-5; e, a cura della stessa Olga Pinto., Viaggi di Cesare Federici e Gasparo Balbi alle Indie Orientali, nella Collana “Nuovo Ramusio”, Poligrafico dello Stato, Roma 1962.

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